Vincenzo Spalatro, fratello minore di don Antonio
Quando Totonno (così era chiamato don Antonio in famiglia) cominciava la sua attività pastorale, io non avevo ancora dieci anni, e quando l’ha terminata, io non avevo ancora quindici anni. Quindi, io, di mio fratello ho visto molto poco. Per me era un fratello prete come ce l’avevano tanti e non potevo capire la straordinarietà di questa figura se non attraverso dei particolari che non sono secondari. Ad esempio, quello che mi impressionava e mi faceva riflettere erano le discussioni che aveva con mia madre, la quale era preoccupata innanzitutto per la sua salute. Gli diceva: “Fermati un po’, siediti un po’, riposati”, perché lo vedeva sempre affaccendato. Aveva un’attività frenetica, non si fermava mai. La seconda ragione era più sostanziale. Dovete sapere che, purtroppo, in casa spesso mancava qualcosa, e qui venivo coinvolto anch’io, perché il primo pensiero di mia madre era rivolto verso di me. Poi lui confessava. Diceva, da persona corretta, che era stato lui a portar via le cose che mancavano.
Certamente a casa non c’erano gli ori. Mancavano spesso i generi alimentari, pasta, farina, pane, le bottiglie della salsa, una volta mancò un cuscino, un’altra volta mancò una sedia. Io, però, non ho mai saputo se lui in qualche modo compensava mia madre. Questo non l’ho mai saputo, né potevo saperlo. A un certo punto mia madre si seccò e decise di affrontarlo. Aveva un po’ di timore reverenziale verso questa figura di figlio prete, però era un tipo di persona che quando era il momento di affrontare di petto una situazione, subito l’affrontava decisa senza avere incertezze. Voglio riferire i termini del colloquio. Mia madre era sempre un po’ agitata, sempre un po’ eccitata; lui, invece, era sempre composto, molto civile. Chi parlava di più era mia madre. Certamente, nell’affrontare questa polemica, mia madre con lui usava argomenti forti, perché lo voleva convincere e diceva: “Non pensi a tuo padre che sta in campagna dalla mattina alla sera?” Egli diceva: “So bene che papà è un sant’uomo e che avrà tutte le ricompense almeno dal cielo”. Di fronte a un argomento del genere, mia madre si smontava, però non demordeva, non si arrendeva, e allora usava un altro argomento: “Ma non bastano i sacrifici che abbiamo fatto per farti studiare? Noi pensavamo che, una volta che ti eri fatto prete, per te di sacrifici non dovevamo farne più”. Ed egli rispondeva: “Io faccio il prete”, e non diceva nient’altro. Mia madre non capiva o credeva di non capire e allora ritornava alla carica, usava un altro tipo di argomento e diceva: “Ma le altre famiglie di preti stanno molto meglio rispetto a noi, io non dico che tu ci devi arricchire, ma neanche impoverire”. Ed egli ripeteva: “Io faccio il prete”. Proprio una risposta limpida e trasparente che non ammetteva repliche. Dopo di che mia madre non aveva più argomenti, egli la salutava e se ne andava.
La sua vera bandiera, la sua vera grande preoccupazione, la sua crociata, la sua filosofia pastorale era una sola: la povertà, la povertà, la povertà. La povertà era per lui un’idea ossessiva. La sua vita pastorale è stata dedicata soprattutto alla povertà e al povero, perché egli – e lo affermava anche – nel povero vedeva Gesù Cristo, e diceva: “Io vedo Gesù Cristo tante volte quanti sono i poveri che incontro”.